Una ricerca per una fotografia fuori dal tempo

Francesco Chiot è un fotografo e videomaker indipendente, che lavora a Trieste e sperimenta varie tecniche fotografiche.
Lavora con la fotografia analogica, la fotografia ad infrarossi e realizza video immersivi 360°.
Ha collaborato con artisti, performer e musicisti per esplorare la relazione che intercorre tra identità, percezione ed espressione. Fino al 2018 ha curato la documentazione e la comunicazione degli eventi pubblici del Centro Internazionale della Fotografia (ICP) di New York. Collabora inoltre ad eventi internazionali come il Festival cinematografico Trieste Science Fiction Festival e con l’incubatore di moda International Talent Support (ITS). Ha lavorato come fotografo di scena sul set de La Porta Rossa. L’abbiamo incontrato a Trieste in una giornata fredda dei primi giorni di gennaio 2023 e gli abbiamo fatto alcune domande sul suo lavoro e sulla sua professione.

 

Francesco Chiot sarà inoltre docente di Visual Hub con il corso Come benzina sul Focus che si terrà a marzo 2025 a Trieste.

 

Ciao Francesco, qual è stata la tua prima macchina fotografica?
In famiglia avevamo sempre macchine fotografiche non professionali e non legate ad un uso artistico ed in viaggio facevamo un sacco di foto ricordo. La prima foto che ricordo di aver scattato e che mi è rimasta impressa nella memoria è un selfie orribile con una macchina a pellicola da veramente troppo troppo vicino, ero in gita sul Cansiglio alle elementari. Ti descrivo la fotografia: c’era questo bellissimo panorama montano con un’ombra sfocata di una faccia al centro: ero io che cercavo di farmi una foto da solo -i un selfie ante-litteram venuto molto molto male- però appunto ero alle elementari. Non perché io fossi attirato dalla macchina fotografica ma perché ero attirato dal divertimento dei ricordi, dal creare ricordi che poi avrei riguardato. Appunto con queste macchinette “punta e scatta” tipo le Olympus, che andavano molto in quel periodo. Quindi volendo andare alle prime esperienze sono esperienze di questo genere. Questo però mi ha dato modo di avere questa idea di portarmi dietro la macchina fotografica per creare dei ricordi. Poi invece c’era mia nonna che aveva una macchina degli anni sessanta, quasi di lusso in qualche modo, alla quale sono molto affezionato.  È una Konika Auto S2 con un telemetro di metallo, obiettivo fisso ma molto luminoso che lei usava nei suoi viaggi, ed io avevo sempre questo prurito addosso di lasciar stare la macchinetta di plastica dei miei genitori e chiedere alla nonna mi presti la tua?

E la nonna te la prestava?
Ogni tanto sì però più in là con gli anni, diciamo più verso le scuole superiori. Ho cominciato ad usarla più spesso quando lei ha smesso ed ha cominciato a lasciarmela,  mi diceva beh adesso, usala tu.

E tu hai conservato l’archivio della nonna?
Ho conservato tutte le sue diapositive dei viaggi, perché mia nonna era una gran viaggiatrice. Saliva sulla sua 127 e girava l’Europa ed intendo tutta l’Europa veramente, dalla Turchia al Marocco. 

Puoi raccontarmi il tuo percorso e come sei riuscito a trasformare la fotografia nel tuo mestiere?
Se volessi ricollegarmi al discorso fatto prima, in realtà, è stato un percorso lento e naturale. Utilizzo la prima reflex a 18 anni e comincio a sperimentare, con profondità di campo, con le regole dei terzi, sperimento le foto in bianco e nero, rullini in bianco e nero rigorosamente portati a sviluppare in negozio..quindi c’è stata una lunga fase di sperimentazione che adesso a riguardarla provo molto affetto perché era un momento in cui pensavo tanto alla fotografia a livello tecnico, a livello di cosa mi piaceva fare e cosa no, a livello di impegnarsi per un sacco di tempo. Ed anche se in quel momento magari uno poteva sentirsi un “amatore” (che per me è un termine orribile) a riguardarsi indietro, ci stavo mettendo passione, amore che era una cosa positiva. Ad un certo punto come tanti “amatori”, ho fatto alcune mostre collettive di foto con l’associazione MIMEXITY e mi è capitato di fare un paio di mostre personali, anche se non possiamo chiamarle personali perché io le vedo sempre come una valorizzazione di un bar,  un po’ mettere il mio ego sulle pareti dei locali che già frequentavo. Però anche questa esperienza mi ha dato l’ idea che, attraverso la cura, attraverso la selezione, attraverso il lavoro, io potessi creare un messaggio un po’ più complesso di una singola foto, creare una serie, chiamiamolo un portfolio, diciamo un messaggio composto da più foto. Facendo queste mostre, mi aveva contattato un amico che aveva iniziato a organizzare concerti chiedendomi di fare presenza fissa ai loro eventi. Il loro giro è cresciuto negli anni e quindi mi sono trovato su palchi sempre più grandi, sempre più importanti e così, con costanza, ho portato avanti sia la mia sperimentazione personale sia questa collaborazione continua con la musica dal vivo. In tutto questo tempo lavoravo come ingegnere informatico chiuso in un ufficio per tutta la durata del sole, finché in qualche modo sono “sbroccato” e ho avuto questo scisma personale che mi ha portato a dire “devo cambiare vita”. Un giorno mi sono seduto in un bar in riva al mare a Portorose e a suon di Mojiti, un bel foglio bianco davanti, ho scritto tutte le cose che mi piaceva fare, che sapevo fare e come avrei cambiato totalmente la mia vita. Tra queste cose c’era anche la fotografia, su cui devo ero molto scettico dal punto di vista economico – tutt’ora lo sono. Probabilmente avrei dovuto fare il tassista, visto che mi piace guidare e sarebbe stata una professione più remunerativa. Ma tornando a quel giorno, mi son detto: potrei fare il fotografo, ma solamente se lo faccio bene. Allora se mi prendono in questa scuola importantissima che ho trovato, la scuola che penso più bella del mondo che potrei fare, il sogno della vita che tanto non succederà, insomma SE mi prendono allora faccio il fotografo. E mi presero. E quindi niente,  ho pensato “sarà destino”.

Cosa gli hai mandato come portfolio?
Ho mandato un portfolio e una lettera di intenti, un CV ed è stata una selezione abbastanza complicata. Dopo molti anni, ho riguardato il mio vecchio portfolio fotografico ed era un portfolio di una decina di foto, diverse tra loro.

E cosa ti sembra a riguardarlo adesso?
A riguardarlo adesso ci vedo ancora alcuni elementi che caratterizzano quello che mi piace fare. Mi ricordo un giorno un insegnante in una delle prime lezioni ci aveva chiesto di mettere i nostri lavori sul tavolo, cosi che potesse dirci quello che ne pensava, di getto; un po’ una descrizione sommaria del punto di partenza. La scuola era incentrata sul  fotogiornalismo e non tutti venivano da una formazione legata al giornalismo. Mi ricordo che in quella occasione aveva detto una cosa a cui non avevo mai pensato, ovvero che le mie foto avevano un prima e un dopo e come un fotogramma in un film erano dei momenti fermi nel tempo, che esprimevano però una azione precedente ed una successiva.
Alcune di quelle foto erano foto di concerti, quindi immagina un fermo immagine di un evento dal vivo molto grande, in cui da questa immagine puoi intuendo cosa sta succedendo, un prima ed un dopo. Altre erano foto un po’ più, come si dice in inglese candid, foto più spontanee.. ritratti di amici, ritratti di persone, foto di viaggi con amici. Istantanee che anche loro avevano in qualche modo una certa cinematicità, ma che, nel loro essere ferme, avevano comunque un dinamismo implicito. E questo suo commento è una cosa che rivedo le volte che riguardo le mie foto,  l’idea del fuori dal tempo. Anche i lavori che ho fatto con gli infrarossi riguardavano un po’ l’uscire dal tempo e dallo spazio. Stampe di grandi dimensioni, per farti uscire dal tempo in quel momento, nello spazio alternativo di questo paesaggio onirico che sembrava reale ma che era da un’altra parte; un po’ una fuga dalla realtà. E dunque sì, il mio percorso si è completamente stravolto con questa scuola a New York anche perché ho tagliato completamente con la mia vita a Trieste e l’impatto del cambiamento personale non è da sottovalutare.

Quanto tempo sei stato a New York e a quanti anni?
A 33 anni mi sono trasferito. Era il 2015, davvero tardi per fare un percorso del genere, perché poi le persone che facevano questa scuola con me avevano 10 anni di meno me ed ancora oggi sento di essere in ritardo rispetto alle persone con cui mi confronto. Ma va bene così, perché ho preso determinate decisioni più avanti nel tempo. Questa scuola mi ha insegnato come si lavora, e direttamente mi ha fatto lavorare perché oltre a darmi una borsa di studio mi hanno anche assunto dopo pochi mesi e mi hanno lanciato nella vita di New York che è una vita molto diversa da quella che può essere a Trieste, sia dal punto di vista di come si vive la città, sia dal punto di vista di come si vive l’arte e la fotografia e il lavoro della fotografia in quell’ambito. New York è la capitale della stampa, del giornalismo.
Nel 2017 sono tornato a Trieste, non per scelta ma per forza, con la rinnovata idea di impegnarmi tanto per cambiare quella che era la realtà possibile, che vedevo possibile qui prima di partire, cioè una realtà stantia. Non cambiarla nei confronti degli altri, ma di mettermi d’impegno in qualche modo e di riuscire io in qualche modo ad avere una situazione lavorativa più simile a quella che avevo in America e di non finire a dover fare solamente compromessi.

Cosa ti sembra di aver ottenuto da questa città?
Non lo so, sono ancora molto confuso. Sono comunque una persona abbastanza riservata, schiva e ho sempre fatto fatica anche prima di New York ad integrarmi in quelli che sono i piccoli circoletti, gli ambienti fotografici, i giri di amicizie e tutte queste cose qua. E in questo caso la scuola mi aveva aiutato perchè bene o male mi aveva regalato delle amicizie e mi aveva regalato un inizio di carriera. Comunque spesso il mio sentirmi isolato è dovuto al mio stesso comportamento, alla mia indeole. Perchè comunque delle piccole realtà ci sono. Sicuramente, mi sembra che ci sia molta competizione, poca collaborazione e in qualche modo la sensazione istintiva per tutti quanti, sia noi professionisti o anche delle professioni che gravitano attorno all’arte, che sia una bolla molto piccola e che bisogna lottare per essere il re di questa bolla molto piccola. Mentre a New York si aveva l’impressione che il mondo fosse talmente vasto, che la competizione era inutile. Anzi, aiutandosi a vicenda si potevano rompere i limiti generali, si poteva alzare il soffitto delle possibilità. Un concetto completamente diverso di collaborazione e di vivere una cosa che è di tutti perchè non è di nessuno. Mi sembra che l’ambiente ristretto sia dovuto anche ai limiti geografici e culturali della città e che questo porti ad una competizione insensata per paura di perdere qualcosa che in realtà non esiste. Ed io a questa sensazione non vorrei soccombere. Quello che posso fare, è continuare a fare il poco che faccio seguendo ciò che io ritengo essere giusto, cercando di fare meno compromessi e conflitti possibili.

Veniamo a Trieste e il cinema
Trieste ha un bell’aspetto e questo si vede molto anche ne La Porta Rossa ed è il primo commento che viene fatto dalle persone che guardano la serie. Le riprese di Trieste sono estremamente belle e la città si merita tutto questo successo perchè è davvero fotogenica, ed avrebbe la possibilità di esser sfruttata di più visto che è una città un po’ in recessione e si trovano tanti spazi vuoti, con tante industrie ferme e capannoni vuoti. L’industria del cinema è prima di tutto appunto un’industria, un artigianato che ha bisogno di tanti spazi lavorativi a disposizione più a lungo possibile, e a Trieste questa potenzialità c’è. Poi per fare un esempio, Vancouver una capitale del cinema nel nord America perchè ha tutta una serie di incentivi sul cinema, incentivi sull’industria digitale del cinema e ha un aspetto molto neutro per cui puoi far apparire qualsiasi città del nord America a Vancouver, basta cambiarci alcuni dettagli come le cassette della posta, le insegne, queste cose qua. Per Trieste, potrebbe essere simile, sarebbe possibile caratterizzarci gran parte del centro Europa.
FVG Film Commission e Casa del Cinema danno un grandissimo aiuto, mettendo a disposizione tutta una serie di incentivi e strumenti fiscali ed operativi per le produzioni, ma se ci fossero spazi piu stabili per il cinema, se esistesse una “Cinecittà” ma non dal punto di vista dei set necessariamente, ma dal punto di vista della produzione, falegnameria, dei costumi, del reparto artistico, darebbe sicuramente un ulteriore incentivo al cinema a Trieste.

Quante ore fai sul set, come ti rapporti ai luoghi, devi fare dei sopralluoghi prima o vai e scatti durante le giornate di registrazione?
Devo fare una premessa sulla natura che riguarda figura del fotografo di scena. È una premessa che poi ti fa capire il resto. Il fotografo di scena è la figura meno necessaria alla produzione di un film. È proprio la persona che, se dovesse cadere in un burrone durante le riprese, il film non si fermerebbe neanche per un minuto. Siamo meno importanti del catering, meno importanti degli autisti dei camion, meno importanti degli attrezzisti, delle luci, dei costumisti, dei truccatori, di tutto l’apparato regia, dei furgoni stessi. Se qualsiasi di queste figure dovesse avere un “mal de notte” (problema di salute in dialetto triestino ndr.) come si dice a Trieste, ci sarebbe un ritardo di produzione, a volte anche grosso. Mentre il fotografo di scena, a volte è meglio che non ci sia. Questo implica che il mio lavoro è prima di tutto quello di non esserci, di cancellare qualsiasi egoismo e di essere al servizio del lavoro di tutti gli altri. Questo significa non avere sopralluoghi, non avere degli orari precisi, non avere degli slot dedicati con gli attori. Sarò sempre a dovermi ritagliare il lavoro, ad dover essere intelligente a trovare gli angolini in cui non dò fastidio alla produzione del film, al lavoro degli altri, alla stanchezza, alle necessità degli attori e in cui posso riuscire comunque a portare a casa il lavoro che mi viene chiesto di fare. Il lavoro non è di tutti i giorni, diciamo nella produzione di una fiction è circa il 30% dunque un giorno su tre, una quarantina di giorni su tre mesi. Però nel momento in cui vieni convocato lavori 12/15 ore al giorno come tutti gli altri, giorno o notte, una location, due location, tre location, come tutti gli altri. È un lavoro fatto di grandi attese, perchè lo scatto è un attimo, ma la preparazione è lunga, le ripetizioni sono lunghe, e in generale tantissime attese.

Quanta strumentazione ti porti dietro?
La maggior parte delle volte mi porto dietro pochissima roba. Una borsa con dentro tre obbiettivi, tre batterie, un carica batteria e un corpo macchina. Chiaramente non servono luci artificiali, anzi! Qualsiasi cosa mi dovesse servire – una luce in più per qualche motivo particolare – posso semplicemente chiederla alle maestranze. Mi è successo che mi fornissero un pannello per delle necessità di scena, al volo. Perchè prima di tutto il mio è un lavoro di invisibilità, un flash mi renderebbe la persona più odiata nel set. Poi, se ci sono delle necessità di ritratto, queste sono un po’ pianificate e quindi lascio in bagagliaio un flash una luce un cavalletto in modo da poter fare un ritratto al volo.

Scusa la domanda scema ma il click della macchina?
Per fortuna nel 2023 ci sono le mirrorless che non fanno alcun rumore, potrei essere attaccato al microfono che si sentirebbe solo il fruscio dei miei vestiti.

Ho un ultima domanda: 3 fotografie di altri fotografi, che ti hanno colpito e se puoi descrivermele
Una fotografia sicuramente, e anche qua c’è una grossa relazione con il tempo e lo spazio, viene dalla serie Open Shutter di Michael Wesely che era il fotografo che documentò la costruzione del MoMA. Si tratta di fotografie a singole esposizioni durate mesi o anni. Lui aveva piazzato delle scatole, con tutta una serie di filtri e con un emulsione progettata da lui, in punti strategici in cui il MoMA si sarebbe sviluppato, anche attorno alla macchina fotografica. E l’esposizione lunga fatta in questo modo fa si che siano rimaste impressionate solamente le cose che stavano ferme più di un tot, facendo risaltare lo stratificarsi dell’avanzamento dei lavori. Questa successione di linee e colonne, piccoli balzi di luce, in maniera molto astratta, raccontano quella che è stata la successione temporale della costruzione di un palazzo, in un unico frame. Lui aveva fatto uno studio precedente, lungo anni sulle esposizioni lunghe, partendo dai tracciati del sole e dunque documentare lungo l’anno il movimento del sole e lo spostamento, in alto in basso a seconda delle stagioni, le stelle. Tutto questo sempre lavorando su esposizioni lunghe mesi o anni, una cosa che io ho trovato incredibile. Non ho mai sperimentato qualcosa del genere, con i miei mezzi ero arrivato all’ordine dei minuti mentre già parlare di ore è problematico, anche perchè con le macchine moderne prima o poi la batteria muore e i pixel smettono di registrare. Ci sono tanti limiti nel digitale in queste tecniche. Ad ogni modo, questa è una fotografia che mi porto dietro, è sempre stata una delle preferite e mi sono cercato il libro per lungo tempo, per conservarla.
La seconda è di Jonas Bendiksen che ha fatto una lunga documentazione sul crollo dell’Unione Sovietica e degli stati satelliti, che infatti si chiamava Satellites. All’interno di questa serie, un giorno, non mi ricordo in quali di queste repubbliche ex sovietiche, si era imbattuto nei resti di un razzo spaziale, probabilmente una capsula Soyuz, che erano tornati a terra in un prato, ed in questi resti c’erano delle persone che stavano cannibalizzando quello che serviva. Era un campo verde, con questi grossi tubi di metallo. E nel momento in cui si è avvicinato per fotografare si è alzata una miriade di farfalle tra lui ed il soggetto. Ciò che si vede nella foto è dunque un prato verde, con due tubi metallici estremamente industriali, una persona che spunta da questo tubo e lo spazio cosparso di queste macchioline bianche, che è difficile capire se si tratta di neve o di qualcosa d’altro, ma sono in realtà farfalle. È quasi una utopia pseudo industriale. Mi piaceva molto questo essere fuori da un luogo e fuori da un tempo quasi un film di fantascienza all’interno di una foto, ed è completamente diversa dal resto del suo lavoro – che parla di metallo arrugginito, di palazzi diroccati, di queste comunità sovietiche che non hanno tanto a che fare ormai con l’utopia mentre questa è l’unica di tutta la serie che invece ti porta in uno stato più onirico fuori dalla gretta realtà del crollo del comunismo.
La terza e ultima foto è all’interno di un libro a fumetti e fotografie che si chiama
The Photographer che racconta la storia dell’autore, questo fotografo mandato a documentare l’attività di Medici Senza Frontiere durante la guerra russa in Afghanistan. Questo giovane ragazzo francese che non è mai stato sul campo viene mandato in Afghanistan e deve seguire un convoglio umanitario a cavallo lungo tutta una serie di zone montuose e, “spoiler”, la sua avventura non va tanto bene. Perchè ad un certo punto, per alcune vicissitudini, si separa dalla carovana e prosegue da solo; viene truffato dalla sua guida, viene truffato da altre guide, viene derubato, viene abbandonato in mezzo ai monti nel pieno dell’inverno afgano senza più viveri, senza più provviste e crede di morire in mezzo alla nebbia, in cima ad un passo.. a quel punto lui slega il cavallo per lasciarlo libero, ma questo gli resta vicino. Nella nebbia non si vede molto e lui, disteso a terra nel luogo che crede essere il suo ultimo giaciglio, prende la macchina fotografica e fa una foto al cavallo. “Spoiler numero 2” sopravviverà ed il libro va avanti. Un libro molto bello perchè l’intera sua storia è documentata dalle sue fotografie inframezzata dal racconto a fumetti di quello che succedeva nel mentre. E lo trovo uno spaccato estremamente realistico, più reale del reale, ed estremamente emotivo per questo suo scattare una fotografia come ultimo gesto, prima di lasciarsi andare – e la sua ultima foto è un ritratto del suo cavallo, suo compagno fedele, nella nebbia con gli occhi che si chiudevano.

Un’opportunità per una crescita sostenibile.

Queste sono le i principi portanti del nostro progetto:

Mission: ispirare e rendere più consapevoli, competenti e attrezzate le persone che lavorano nei settori della creatività visuale. 

Vision: creare un’intelligenza collettiva fatta di formazione multidisciplinare, tutoring, mentoring e incentrata su relazioni solide tra le persone che lavorano nei settori della creatività visuale 

Purpose: la bellezza salverà il mondo. Vogliamo aiutare a riportare al centro la creatività, la cultura dell’immagine, rendendo equo e sostenibile il mercato, supportando gli addetti ai lavori del settore ed educando i fruitori. 

Value proposition: Entra nella community della Creatività Visuale. Miglioriamo il nostro lavoro, innoviamo il settore e contribuiamo a renderlo più sostenibile. Insieme.